Ridateci Marx

LAVORO. DICONO CHE C'E' POCA FLESSIBILITA', MA SOLO UN NUOVO CONTRATTO SU CINQUE E' STABILE


Sul fronte del mercato del lavoro, in quel che un tempo veniva chiamato il Bel paese, c’é chi sostiene che gli italiani, sopratutto i giovani, scontano la difficoltà a trovare una occupazione a causa della poca flessibilità in entrata.
Sarà come dicono loro, tuttavia in una stagione drammatica per l’intera nazione in cui i licenziamenti e le ore di cassa integrazione continuano ad aumentare, le aziende falliscono e/o delocalizzano all’estero consideravo, forse ingenuamente, che la ragione principale della disoccupazione fosse legata principalmente alla recessione economica e alla conseguente assenza di lavoro per le imprese italiane.
Evidentemente mi sbaglio. Ma continuo a ritenere che puoi detassare il costo del lavoro (obiettivamente troppo alto), renderlo ancora più flessibile di quanto già non lo sia, ma se congiuntamente non c’è una crescita economica è difficile solo immaginare di poter risolvere la piaga della disoccupazione.
Affidarsi esclusivamente alla flessibilità in entrata è una pia illusione o un modo come un altro per non entrare nel merito dei reali problemi strutturali della nazione, a partire dall’assenza di sovranità dell'Italia sia sul piano economico che su quello monetario.

Vorrei ricordare che il cosiddetto precariato è stato introdotto con la legge 196 del 1997 (governo Prodi) che ha legalizzato le agenzie interinali con l'obiettivo di favorire l'occupazione, che all'epoca si intendeva essenzialmente a tempo indeterminato.
Poi si è cominciato ad insistere sul tema della flessibilità (termine meno inquietante di “precarietà”) con l’obiettivo di far percepire il lavoro flessibile come una necessità ineludibile del nuovo mercato del lavoro globalizzato. Un'operazione culturale potentissima che è poi sfociata nella legge 30 del 2003, comunemente detta Legge Biagi, che ha introdotto 47 tipologie di contratti “flessibili”.
Al netto della riforma Fornero del 2012, oggi il sistema prevede: contratti a progetto (quello che un tempo era il famoso co.co.co.), il contratto a tempo determinato (che, per il tempo della sua durata, almeno in genere offre le stesse garanzie di quello a tempo indeterminato) e le cosiddette finte partite IVA.
Ci sono poi tirocini, stage, contratti di inserimento, apprendistato e così via, tutte forme caratterizzate dall'elemento comune della mancanza di continuità del rapporto di lavoro (e spesso di adeguate condizioni lavorative), che porta all'insicurezza economico-sociale e all'impossibilità di poter progettare un futuro per il lavoratore.
Insomma, il problema dei problemi per alcune personalità di quei partiti che sostengono il governo (neodemocristiano) di Enrico Letta, non è la mancanza di commesse per le nostre aziende, o una pressione fiscale vergognosa, o la scarsa credibilità delle istituzioni e della politica, ma la poca flessibilità in entrata dei contratti di lavoro. Dei fenomeni!

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