L'ultimo saluto al camerata Teodoro Buontempo


 
  MEGLIO UN GIORNO DA "PECORA" CHE CENTO DA LEONI
 

Era il 1970, avevo sedici anni, ero al liceo Giulio Cesare, il regime comunista polacco, capeggiato da Gomulka, aveva appena avviato una repressione antioperaia. Un gruppo sparuto di manifestanti si presentò ai cancelli all'ora d'entrata per coinvolgere gli studenti in una manifestazione di protesta.
Partimmo, eravamo circa trecento. Ci guidava un vecchio (aveva più di vent'anni!) che con la sua voce roca e il suo marcato accento abruzzese ritmava nel megafono “Gomulka, boia, figlio di una troia!”.
Incontrai così per la prima volta Teodoro che ci trascinò in un percorso a tappe che prevedeva una sosta davanti al feudo rosso, il Tasso (all'epoca non sapevo che lo fosse quindi mi soffermai lì sotto con la più incosciente tranquillità) e che si sarebbe dovuta concludere davanti all'ambasciata spagnola per esprimere solidarietà non a Franco (“perché – diceva allora l'ultraventenne al megafono – non ci piacciono i preti che fanno politica”) ma alla Falange. Quello era un momento in cui la sinistra internazionale era mobilitata contro il regime iberico.

La polizia ci sbarrò la strada a duecento metri dall'ambasciata; al governo non doveva piacere che fosse inscenata una manifestazione a favore del regime maledetto. Qualcuno pretese che si dovesse forzare il blocco della Celere, ma Teodoro concluse lì la manifestazione e fece benissimo perché la prima fila era composta da adolescenti come me, oltretutto inermi, e ci avrebbero bastonati e portati in questura se avessimo provato a fare altro.
Inoltre la manifestazione proseguì il giorno seguente e quello dopo ancora e finimmo con lo sfilare in non meno di ventimila persone all'interno dell'università occupata, con gli avversari barricati nelle facoltà.
Conobbi così Teodoro e compresi com'era. Assennato ma coraggioso, dunque responsabili. 
Non lo frequentai mai davvero, io extraparlamentare acerbo e poi inveterato, lui dirigente della Giovane Italia e poi del Fronte della Gioventù.
Non lo frequentai ma lo incontrai spesso. Perché c'era sempre: quando si vivevano situazioni drammatiche o eventi tragici qualcuno non c'era mai, in diversi c'erano talvolta, Teodoro c'era sempre.
“Er pecora” lo avevano denominato a Roma quando immigrò dall'abruzzo per darsi alla battaglia politica. Il classico soprannome romano, a metà strada tra lo sfottò sprezzante e lo stimolo affettuoso. Er pecora aveva cuore e soprattutto fegato, quel fegato dove è stato simbolicamente colpito nella trasfigurazione del trapasso.

Un fegato ragionato, e dunque ancor più lodevole, non quello degli spaccamontagne.
In quegli anni, fino al 1973 almeno, il livello dello scontro era contenuto: bastonate e molto spesso cazzotti. Andavano alla grande quelli che venivano definiti picchiatori, gente dal pugno fulminante o dalla capocciata devastante. Per loro era facile stare in prima linea, per gente soltanto coraggiosa era diverso. Gente che aveva la misura, gente che magari, come davanti all'ambasciata spagnola, subiva critiche dai rodomonte, dagli audaci pesi massimi.
Audaci sì ma non sempre risoluti. Perché di lì a poco sono venute le spranghe e le chiavi inglesi, poi le pistole e i cannemozze, le bombe incendiarie e i mitra e contemporaneamente la polizia e la magistratura incalzavano. Noi presi tra due fuochi: Teodoro c'era sempre, molti cuor di leone non li abbiamo visti più. In quanti sono spariti in un attimo! Teodoro rimase.
Teodoro se n'è andato adesso.
Subito dopo il disfacimento di tutto quello che restava del Msi.
Il partito che per lui fu davvero una casa, il luogo dove trascorreva ogni minuto e che gli fu anche giaciglio e tetto.
Un simbolo anche questo: la dipartita di Teodoro chiude definitivamente la casa madre, con il suo trapasso il Msi passa definitivamente alla storia.

Teodoro un'ultima beffarda soddisfazione se l'è presa. Ci consente di celebrare un 25 aprile per rendergli omaggio in Campidoglio .
Sempre controcorrente e un po' beffardo anche nell'ultimo gesto.
Mi hanno detto oggi che all'ultima persona a cui ha potuto parlare prima di perdere coscienza, subito prima che lo lasciasse, ha detto “salutami romanamente!”
Niente da aggiungere, Teodoro.

Gabriele Adinolfi

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